Non è la prima volta che il Partito Democratico è “in crisi”: ha passato altri periodi di spaesamento e sconfitte, nella sua quindicennale vita. La cosa più preziosa di quei periodi, come accade spesso con le crisi (“in ogni crisi c’è un’opportunità”, si dice sempre) è stata la possibilità di occupare i vuoti – di sgomitare per proporre novità – che lo spaesamento ha creato dentro un partito comunque assai complesso e strutturato, e che sembrava impossibile da intaccare. In quei diversi momenti, in soli quindici anni, le primarie – già uno strumento di possibile cambiamento, con tutto quel che ha di discutibile – hanno tentato e incentivato candidature altrimenti improbabili, con intenzioni sovversive, e che dei pezzi di cambiamento li hanno introdotti, pur essendo state dapprima guardate con sufficienza e sprezzo da parte dell’establishment del tempo (che in una cospicua parte è ancora l’establishment di oggi). A quelle primarie si sono candidate spericolatamente, sfacciatamente, usando persino termini irritanti per lo status quo (“rottamare”), persone che hanno aggregato in quote diverse e poi con esiti diversi cospicue comunità di sostenitori convinti che le cose andassero cambiate e che non si potesse ancora semplicemente rimescolare i gruppi dirigenti e le correnti esistenti. Faccio gli esempi, e nessuno faccia i capricci: sono esempi che corrispondono a quello che ho descritto, che stiano simpatici o no. Civati, Scalfarotto, Renzi, Marino, si sono candidati da outsider – e le loro candidature hanno costruito qualcosa – e hanno raccolto i consensi di molti disincantati dalle dirigenze esistenti.
Adesso non sta succedendo niente di questo, malgrado il periodo di crisi e le sue opportunità: non si offenda nessuno, ma è evidente che il dibattito sia tutto intorno al posizionamento delle classi dirigenti intorno a candidati che sono già classi dirigenti, e la cui identità è data dal loro guardare più “al centro” o “a sinistra”, aggregando le correnti relative. Brave persone di certo, probabilmente capaci, ma niente di sovversivo, nessun outsider, nessuno motivato a creare qualcosa di nuovo, anche sventatamente e a raccontare una rivoluzione possibile. Nessuna comunità di simpatizzanti che si crea, nessun vivace dibattito nei circoli che aggrega partecipazioni nuove, fossero anche della durata di una sardina.
Non è per criticare le candidature esistenti, e il lavoro di correnti e Bettini e Franceschini e Orlando vari, che dico tutto questo: fanno il loro lavoro, e non condivido mai molto la richiesta del “farsi da parte”. Magari favorire stabili processi di rinnovamento (anche solo perché quelli vecchi hanno perso, è un fatto) potrebbe essere lungimirante per chi guida un partito, ma il cambiamento lo devono fare i suoi proponenti, non lo si può chiedere ai “rottamandi”.
Dico invece tutto questo per constatare con scoramento come appunto nessuno abbia voluto infilarsi nel varco, questa volta: nessuno che si sia fatto forza di essere “fuori” dall’establishment invece di andarne a cercare sostegno e alleanze, nessuno che abbia detto “proviamoci”, come è appunto successo altre volte. E non è da farne una colpa, evidentemente a questo giro nessuno ci ha creduto, ne è stato motivato. Mi dispiace molto per gli eventuali giovani speranzosi e di buona volontà che a differenza di quelli che in anni passati trovarono qualche eccitazione e coinvolgimento nelle candidature dette, adesso guardano quel che succede con la stessa estraneità di ieri. Ma forse anche loro hanno di meglio da fare.