L’idea di Pisapia, il PD

La proposta fatta da Pisapia ieri in un’intervista a Repubblica è uno spettacolare esempio di confusione tra un desiderio e una possibilità: e questa confusione è la ragione per cui in tanti hanno (abbiamo) letto quella proposta con curiosità ed emozione. Come quando stai molto male e qualcuno ti dice “dai, vedrai che con una bella dormita passa tutto”: è bello, rassicurante, viene da credergli, in assenza di altre prospettive confortanti. Perché no, in fondo? Magari domani mi sveglio ed è tutto passato. Magari ora ci pensa Pisapia.

Lo dico con gratitudine per Pisapia e solidarietà per tutti quelli che si sono sentiti così, per un attimo, leggendolo. L’idea che ci possa essere una sinistra di sinistra, felice, unita e vincente, è come incontrare dopo tanti anni la fidanzata del liceo: prima che tu possa ragionare, qualcosa ti travolge di nuovo. Se sei solido e sereno abbastanza, dura il tempo di un abbraccio affettuoso, e poi ragioni; se no, fai pure delle cazzate imbarazzanti. Con Pisapia e il suo progetto, direi di fermarci all’abbraccio affettuoso. Ogni tentativo politico che metta il PD insieme a “quello che c’è a sinistra del PD” è fallito, in Italia, e non c’è ragione di pensare che oggi le condizioni siano più favorevoli, anzi. L’unica eccezione notevole fu l’elezione di Pisapia a sindaco: ma l’eccezione fu appunto Pisapia, non il progetto. Un candidato così forte e trasversale, unico, da vincere malgrado la difficoltà di tenere momentaneamente insieme due “campi” incoerenti e insofferenti l’uno dell’altro. E la cui unicità e forza era tutta in quel contesto: elezioni di sindaco, a Milano.

Il progetto di cui parla Pisapia – unire un “campo progressista” ragionevole e volenteroso, capace di contenere centrosinistra e sinistrasinistra – esiste già, e ci si sta lavorando da un pezzo: si chiama Partito Democratico. Il leader capace – nessun progetto funziona senza un leader vincente, e viceversa – di fargli governare l’Italia, c’è stato: era Renzi, dati alla mano, piaccia o no Renzi. Il loro fallimento – del PD e di Renzi – deriva dal non avere Renzi aderito al progetto (la vocazione maggioritaria): creando un governo con forze di centrocentro e contraddicendo se stesso con metodi e scelte da “vecchia politica” che aveva annunciato di voler sovvertire (priorità alle fedeltà invece che alle capacità, presunzione di gestire l’informazione, distanza dalle complicazioni locali: che alla fine vinci solo in tre regioni, due le tue).
Renzi stesso obietterà – l’ha già fatto – che sono state le regole costituzionali ad averlo costretto a questo governo di compromessi, e che grazie a quella scelta il suo governo ha fatto molte cose indiscutibili e ha provato a migliorare quelle regole. E avrebbe potuto avere ragione, alla fine: purtroppo però la bontà delle strategie si giudica dai risultati, e i rischi presi sono legittimati dal lieto fine. Se il bambino muore, non è stata una buona idea gettarlo dalla finestra per salvarlo.
Avesse vinto il referendum, avrebbe avuto ragione lui. Lo ha perso – perso perso – e la sua “deroga temporanea” all’idea di un PD di centrosinistra unito e maggioritario – possibile solo con una leadership nuova, concreta e inclusiva come poteva essere la sua – si è dimostrata perdente, sconfitta, sbagliata.

Ora tocca aspettarne un altro, chissà per quanto: ma se esiste un’idea per la sinistra italiana – magari non esiste – l’idea del PD resta giusta, è stata solo applicata male. O quello era il comunismo?

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