Il sottosegretario all’Editoria Carlo Malinconico sostiene in un’intervista sul Fatto – a parole, per ora – l’idea di aiutare il pluralismo dell’informazione incentivando il trasloco in rete invece che con i finanziamenti alla carta. Bene.
«Il 2012 sarà un anno di transizione, poi cercheremo di incentivare il passaggio alla Rete. Ci sarà un limite minimo di copie vendute e distribuite: chi non lo raggiunge deve trasferirsi su internet per abbattere i costi senza sacrificare giornalisti e lettori»
Io non sono d’accordo con il sistema ipotizzato.
Benissimo che si sostenga l’editoria non per quello che stampa in carta ma per le informazioni che distribuisce.
Però non va bene il discorso del limite minimo: in questo modo chi ha buoni numeri otterrà più fondi, in maniera non proporzionale, a chi ha numeri inferiori.
Il sostegno dovrebbe andare in misura proporzionale ai lettori. Ma come conteggiarli in rete?
Inoltre c’è un altro problema: è giusto che lo Stato sostenga con le proprie risorse stipendi molto disomogenei? Se un quotidiano decide di pagare 100’000 euro al mese un giornalista, e 2 euro al pezzo tutti gli altri ci sta bene?
Un sistema potrebbe essere quello di sostenere con detrazioni fiscali il lavoro all’interno di queste testate.
Quindi se un quotidiano ha 10 dipendenti lo Stato copre parte delle tasse dovuti per loro, con un limite massimo. Sono per la meritocrazia, ma esattamente come per le altre “caste” servono dei limiti per non esagerare.
Questo sistema restituirebbe giustizia ai contributi all’editoria: se vendi molte copie, esci anche in edicola (per tua scelta, con investimenti tuoi ripagati dalle vendite *vere*) ed hai molti collaboratori.
Se vendi meno copie, fai una informazione più di nicchia, vieni sostenuto nel lavoro di creazione dell’informazione e ti sposterai sul web per ragioni economiche.
Si eliminerebbero situazioni paradossali con testate “fantasma” pubblicate e sostenute interamente con i contributi a perdere dello Stato.
Questo garantirebbe comunque estrema libertà di scelta alle testate ed il pluralismo dell’informazione.
ma malinconico non è quello che quando l’hanno fatto sottosegretario all’editoria tutti i blogger più trèndi hanno avuto un mancamento?
Ma da quando in Italia l’analfabetismo digitale è magicamente scomparso?
Questo uovo di Colombo sfida la gallina di “plis visits d uebsait bat plis visits itali biutilful cauntrisaids villiges lenzcheps”…
Ma soprattutto, questo significa che hanno deciso di risolvere finalmente il problema del digital divide?
No perché nella metà del territorio nazionale collegarsi a internet è ancora verbo che si declina al futuro e il numero di quelli che non hanno internet, prima ancora di non avere un aifòn/aipad, è ancora rilevante al punto da trovare snob qualsiasi ipotesi di futuro dell’informazione che, semplicemente, li elimini dalle variabili utili a fare business plan.
C’è un mondo là fuori per il quale il giornale è ancora quello sul tavolo del bar o al parco al pomeriggio e non è raro che quel mondo coincida con quello nel quale internet è solo una parola sentita in tv.
Non saranno l’elettore tipo dell’Italia dei Carini e ok, ma nemmeno li ignorerei se fossi uno che vuole ragionare sul futuro di un intero settore.
Altrimenti è un po’ come ragionare di manutenzione/qualità delle ferrovie con un pendolare, sostenendo che la qualità dei treni è quella del Freccia rossa solo perché le uniche volte che prendiamo noi il treno saliamo su quello.
Il problema è capire se conteranno le copie vendute o quelle distribuite…