I clichés non sono più quelli di un tempo

La settimana scorsa, nello stesso giorno, i due maggiori quotidiani titolavano così due articoli nelle rispettive pagine dei commenti e della cultura: “La ricetta del boss esempio di longevità” e “Quando il boss si finge pazzo”. Ma non si trattava dei soliti articoli doppione dedicati allo stesso tema e semplicemente titolati con diverse pigrizie linguistiche: erano due recensioni, ma una di un saggio dedicato alla mafia e ai suoi capi, e l’altra di un libro su Bruce Springsteen, “il boss”.
La fobia tutta italiana per la ripetizione dei soggetti ha costruito nel tempo una lingua giornalistica parallela di figure retoriche, nomignoli e apposizioni liberate: che si scatenano nella cronaca sportiva (“la squadra partenopea”, “i neroazzurri”) e in quella musicale, dove però la creatività si è andata da tempo riducendo. Potete ancora trovare articoli affollati da espressioni come “il duca bianco”, “i quattro scarafaggi”, “il menestrello di Duluth”, “il boss”, il principe di Minneapolis” e persino “l’aquila di Ligonchio”: ma le rockstar e le band degli ultimi decenni non hanno generato clichés altrettanto solidi, mi pare. Gli U2, gli Oasis, i Rem (“la band di Athens”, al massimo), i Blur, i Radiohead, sono stati risparmiati da simili trattamenti. Possiamo rallegrarcene, o è perché non c’è più la “vecchia guardia” (ops!)?

(chiedo scusa: nella versione di questo articolo pubblicata su Vanity Fair ho scritto Akron invece di Athens)

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5 commenti su “I clichés non sono più quelli di un tempo

  1. Giordano

    Beh…un pò e un pò, come al solito.
    Io ho 30 anni e forse nel tempo è cambiata anche la generazione di chi scrive, oltre di chi legge.
    Però 2 venerdi fa ero al concerto di Springsteen e pensavo con curiosità: “Quale artista 60enne, ora giovane, andrò a vedere fra 30 anni?”
    Voglio dire: lo Springsteen di adesso (ma anche il Roger Waters, Bono, etc.) è nato artisticamente molti anni fa. Springsteen 30 anni fa era già famoso e mio padre comprava i suoi dischi. Per quali artisti attuali (emergente o in attività da qualche tempo) si prospettano carriere simili per longevità, varietà della produzione artistica, etc.? Di quali artisti già noti ora il mio futuro figlio si comprerà i cd, gli mp3, i flac o quel che ci sarà fra 20 anni?
    La triste verità è che fra 10 o 20 anni non ricorderemo nessuno o pochissimi dei nomi che ora ascoltiamo perchè la discografia ha tempi diversi e, forse, gli artisti non hanno lo stesso spessore.
    Questo non vuol dire che la musica di adesso faccia schifo e una volta erano tutti più bravi…però evidentemente è cambiato qualcosa anche nella fruizione e gli artisti si “bruciano”più facilmente.
    è cambiato qualcosa, e continuerò a ripeterlo sempre, anche nelle proposte dei media. Se le radio passano a ripetizione “only the horses will bring us back home” intervallati da Biagio Antonacci 30 volte al giorno poi la gente non esce a comprarsi l’ultimo di Nick Cave.

  2. Steve Romano

    Che cosa c’è di male in un po’ di creatività linguistica, se non altro in aridi articoli di canzonette?

  3. Giordano

    Mi scuso se il mio commento è partito un pò per la tangente e non ha centrato il tema del post…

  4. Luca

    Rispondo a Steve Romano: la pigra assenza di creatività, sostituita da tic ripetitivi e svuotati. Aridi.

  5. danielotto

    sono d’accordo che magari nella nostra lingua notiamo di più la ripetitività e la sterilità delle formule, ma non credo che sia una fobia italiana. Pensa agli Stati Uniti dove i cliché sono arrivati persino sulle targhe delle macchine (The Sunshine State, The Big Easy, The Windy City), e le squadre di calcio e altri sport vengono chiamate con nomi associati alla loro provenienza o alla maglia un po’dappertutto nel mondo. Anche il boss e il duca bianco, li abbiamo mica inventati noi, e all’estero li chiamano comunque tuttora così.

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