Tiro fuori con parole mie – riconoscendolo come familiare – il concetto articolato da questa “recensione” di Marc Burrows del nuovo disco di Ryan Adams: che è il disco “1989” di Taylor Swift, rifatto dall’inizio alla fine da Ryan Adams.
Burrows dice in sintesi: mi è del tutto chiaro e indiscutibile che la versione di Taylor Swift sia la migliore, che sia un disco pop perfetto, che lo dimostrino i suoi risultati ma anche la sua analisi critica, e le sue ricadute nella musica e nella cultura contemporanea. È un disco come “Purple rain”, o “Thriller”, secondo Burrows.
Invece, sempre secondo Burrows, il disco di Ryan Adams è un altro disco di Ryan Adams, cantautore che non avanza di un millimetro da anni né sul piano artistico né su quello del successo o di un ruolo nella cultura musicale, facendo onestamente le sue solite buone cose.
Eppure, dice Burrows, pur riconoscendo queste cose come verità oggettive, “a me piace più il disco di Ryan Adams. E mi piacerà sempre di più un disco di Ryan Adams”.
Perché a 34 anni, avendo passato più di metà della mia vita digerendo e rigurgitando questo tipo di musica, le mie emozioni sono ormai radicate. Mi piacciono le chitarre rumorose. Mi piacciono le voci maschili vibranti e sentimentali. Mi piacciono la forza del rock e la malinconia. Mi piacciono gli Smiths e il Boss e Unplugged dei Nirvana e tutti quei modelli di riferimento. Insomma, mi piace l’indie rock. Ryan Adams ha trascritto la tavolozza emotiva di Taylor Swift nella mia madrelingua. Immagino che la versione francese dei Tre moschettieri o il dialogo originale in giapponese del Castello errante di Howl siano meravigliosi, ma è nella traduzione inglese che io li capisco istintivamente.
Questo 1989 può funzionare meravigliosamente di per sé (se lo avesse scritto Adams sarebbe il suo disco migliore), ma la sua vera forza sta nel mostrare la scrittura immacolata di Swift per quelli di noi la cui relazione con l’originale è più intellettuale che istintiva. Da critico avevo già compreso la grandezza del disco di Taylor Swift, ma Adams l’ha reso mio.
Ecco, non condivido la dimensione favorevole del giudizio su entrambi i dischi, ma questo è poco importante. Quello che è molto vero – e molto noto – è che il “sound” di un disco, di una canzone, è un pezzo decisivo del nostro apprezzamento per quel disco e quella canzone, e che gli arrangiamenti e le interpretazioni fanno spesso la differenza; ma è anche molto vero – e meno detto – che questa differenza è data spesso da una familiarità soggettiva e personale con quel “sound”. E che nella musica, la qualità “oggettiva” o il “giudizio della critica” contano relativamente poco, rispetto a quello che la musica ci fa sentire addosso per storie, emozioni e biografie tutte nostre. Che non si possono nemmeno spiegare, spesso: ma ci piacerà sempre di più quella cosa lì, a ognuno la sua, o le sue.
(Il titolo è una citazione, lo hanno inventato loro)
Anche a me piace di più la versione di Ryan Adams (probabilmente apprezzo più il suo sound), ma è indubbio che la ragazza ci sappia fare. Basti pensare al rapporto con i media e alla battaglia vinta contro Apple Music. Ok, questi non c’entrano nulla con le qualità musicali, ma di certo aumentano la cassa di risonanza..