Non mi pare siano solo miei, lo spaesamento e il senso di impotenza generati dai cambiamenti politici di questi mesi e anni, in Italia e nel mondo. Scrivo per dire che non è una rassegnazione, né un’indifferenza – una sofferenza, casomai – ma io me la racconto come una lucida e pratica attitudine a fare e scrivere cose che abbiano delle prospettive, dei progetti, della ragionevole possibilità di risultati. A me non ne vengono in mente, di cose così, da mesi: e quindi taccio, cerco di fare bene il Post e intanto mi arrovello da solo.
Perché come tutti non sono capace di dire cosa si dovrebbe fare (la-sinistra-dovrebbe-ritrovare-il-rapporto-col-bla-bla-bla: facciamoci il favore di un po’ di concretezza, va’) ma bravissimo a dire cosa non si dovrebbe fare e cosa non si doveva fare: e cerco di trattenermi, perché non serve più a niente, se mai è servito. Ce lo siamo detto, in buona e cattiva fede.
Faccio un’eccezione perché leggo, tornato dal sollievo di una vacanza dai giornali, di due dibattiti. Uno è piccolo, ma mi tenta di dire la mia a Claudio Cerasa, che sul Foglio racconta di una recente inclinazione a discutere se per salvare il salvabile si debba decidere di preferire la concretezza della Lega sulla cialtroneria del M5S, o le buone intenzioni di parte del M5S sulla velenosità della Lega: Cerasa ha ragione a dire che questo dibattito “sul bipolarismo del populismo” è spesso surreale e che i tratti imbarazzanti e deprimenti dei due partiti sono comuni e non alternativi: infatti, dico io, la questione non è un bipolarismo populista (manteniamo questo aggettivo populista, per capirsi) ma il pensiero unico populista che continua a espandersi. Chi ne cerchi sfumature al massimo perde tempo (ma cercare sfumature – anche al peggio – non è mai pratica sbagliata), ma non è lui il problema. Il problema è che oggi non c’è altro: non in termini di quantità – ci mancherebbe, quasi metà degli elettori italiani ha votato altro – ma di qualità. Torniamo al punto: nessuno sta proponendo niente di non bla bla.
E infatti l’altra discussione è ancora – Repubblica sta provando a spingerla – sul PD e il suo ruolo e i suoi destini. Ed è avvitata, non ne esce niente, ma niente di niente (ed è persino paralizzante, fa credere che stiamo facendo qualcosa): siamo esattamente a dove eravamo il giorno dopo le elezioni, il che dimostra la sterilità del metodo e del dibattito così come è praticato, direi. “Ripartiamo dai fischi” – formula spiccia rispetto alla frase di Martina “da quei fischi dobbiamo ripartire” – ne è comunque lo slogan illuminante: il Pd oggi è solo la sua sconfitta, non ha altro.
E allora mi è tornata in mente una cosa di cui dicevamo spesso in diverse conversazioni, allora, sulle sorti e possibile rinascita dell’Unità – il giornale – quando molti andavano ripetendo che “non si poteva perdere il patrimonio della testata” e altre formule simili: e l’obiezione, logica, sensata, era che il problema dell’Unità era proprio la testata. “Se vuoi fare un giornale, oggi, meglio che gli trovi un nome nuovo”, dicevamo: perché l’Unità – il nome – non era più un asset, ma una liability, direbbero gli americani.
Un peso, più che una risorsa.
Ecco, spero di sbagliarmi e che i tempi cambino rapidamente, ma oggi quella cosa lì mi sembra valere per il PD (alla cui idea sono molto affezionato, ancora di più ora che è morta: letteralmente anacronistica, quindi morta): rispetto alla già ardua (arduissima) impresa di capire come si rimigliorano il mondo e l’Italia, il PD non è più il mezzo, per mille ragioni note. È un peso, più che una risorsa. E lo dimostra come ne siano scomparsi tutti i leader: mai si è vista una così estesa assenza di ambizioni di egemonia in un partito da sei milioni di voti. Il silenzio. Se volete, è una storia pure affascinante: la tradizionale corsa all’occupazione di uno spazio rimasto vuoto, rimpiazzata in questo caso dal dileguamento di tutti, e lo spazio che resta lì, vuoto. Non lo vuole nessuno, nemmeno Calenda che sarebbe il meno disarmato. Perché in molti capiscono che l’immeritata impresentabilità del PD, oggi, è insuperabile. È immeritata, ed è insuperabile.
Non sto dicendo che serva un partito nuovo: ho già detto invece che servono idee e visioni nuove, che nessuno ha, e meno che mai io.
Ma per non buttare altro tempo o illudersi di stare discutendo, a forza di bla bla di dirigenti sfiniti e depressi, partirei da lì, dal capire che le cose sono cambiate: non dal PD, o dai fischi.