I Due Minuti d’Odio

Un po’ di cose diverse su uno stesso tema. Repubblica annuncia oggi una rubrica di odio. La chiama “anti odio”. È difficile non metterla in relazione con una campagna promozionale della nuova versione del quotidiano il cui slogan è stato “Alza la voce“: uno slogan diretto a un pubblico di lettori progressisti la cui parte migliore si era detta fino a un momento prima che i mali del paese erano da attribuire all’informazione troppo urlata, alla politica di destra rumorosa e aggressiva; un pubblico che chiedeva moderazione, ed esibiva citazioni letterarie sull’arte di saper tacere e riflettere, e che si era pensato diverso da tutto questo, lasciando alle destre e ai loro giornali – Fatto compreso – l’alimentazione più avida ed esibita dell’odio e del risentimento (pur concorrendo alla costruzione dell’indignazione ma con modi più indiretti, più ipocriti e meno rivendicati). Basta, fine, fine della diversità: Alza la voce. L’indignazione, e poi l’odio, come prodotti commerciali. Seguirà merchandising.
Ed è difficile non accomunare tutto questo alla grillizzazione degli approcci comunicativi e politici a sinistra che si è notata negli anni passati. Alzare la voce, vaffanculo, la bacheca dell’odio, eccetera. Seguiranno rubriche dell’odio (“anti odio”) dedicate per ogni quotidiano, e poi programmi tv, talent, merchandising.

L’altra cosa che voglio citare è una notizia diffusa sulla stessa Repubblica due settimane fa, sul procedimento giudiziario contro una signora che aveva scritto delle cose orrende e feroci contro il presidente Mattarella su un social network.

Il pubblico ministero Gery Ferrara le chiede: “Perché l’ha fatto?”. Risposta, a verbale: “Era un periodo molto caldo, in cui gli animi erano surriscaldati da alcuni parlamentari dei Cinque Stelle di cui ero simpatizzante. Mi sono lasciata contagiare stupidamente da questi fatti”.
[…] Nel suo interrogatorio ha ricordato che in quel periodo “c’era Grillo che gridava da una parte, Di Battista dall’altra. Dicevano: “Prepariamoci a scendere in piazza. Buttiamo giù tutto il governo”. Era davvero un tam tam tremendo”.

Può darsi che la signora cerchi di scaricare le colpe, nel guaio in cui si trova. Ma può anche darsi che quello che dice e quello che ha fatto siano la dimostrazione concreta che il problema principale non siano “gli haters”, questa categoria umana che persino ribattezziamo per sentirla diversa da noi, estranea, oscura e distante, ma lo “hate” (conservo il termine malgrado non pensi che “odio” sia la parola giusta per definire una violenza che spesso non c’entra con l’odio): i modelli più potenti e influenti del paese stanno costruendo deliberatamente da anni un “clima”, un ambiente, che si è trasformato, e ogni giorno sembra normale spingerlo un po’ più in là. E se glielo fai notare ti diranno “è il paese che è così”, ignorando la propria responsabilità nel renderlo così o nel non portarlo da un’altra parte: un po’ come nella barzelletta del vecchio capo indiano.

Poi c’è il solito Orwell, che viene spesso tirato per la giacchetta a sproposito, ma in effetti.

In un momento di lucidità Winston si rese conto che stava gridando come tutti gli altri. La cosa orribi­le dei Due Minuti d’Odio era che nessuno veniva obbligato a recitare. Evitare di farsi coinvolgere era infatti impossibile. Un’estasi orrenda, indotta da un misto di paura e di sordo rancore, un desiderio di uccidere, di torturare, di spaccare facce a martellate, sembrava attraversare come una corrente elettrica tutte le persone lì raccolte, trasformando il singolo individuo, anche contro la sua volontà, in un folle urlante, il volto alterato da smorfie. E tuttavia, la rabbia che ognuno provava costituiva un’emozione astratta, indiretta, che era possibile spostare da un oggetto all’altro come una fiamma ossidrica.

 

 

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