Il Sole 24 Ore è uno dei pochissimi quotidiani che hanno mostrato una crescita nella diffusione delle copie rispetto al 2019, secondo i dati di agosto pubblicati da poco. Questi sono dati influenzati sempre da diversi fattori collaterali, ma in generale mostrano un calo di anno in anno per tutti i quotidiani, da anni. I fattori per cui alcuni quotidiani conoscano temporanee inversioni di tendenza sono quindi difficili da individuare esattamente (nel caso recente del Fatto ci sono delle spiegazioni plausibili di cui abbiamo parlato nella newsletter Charlie; nel caso degli anni scorsi di Avvenire ne avevo raccontato qui), ma un’ipotesi realistica e condivisa anche nell’azienda che lo pubblica è che il Sole 24 Ore – che viene da anni molto turbolenti in termini di dati ed economie proprie, con le copie dimezzate in sei anni – abbia beneficiato in questo 2020 complicato di una maggiore richiesta di informazioni pratiche, di servizio, utili alle attività professionali, richiesta che trova risposta senza concorrenti nelle tradizionali attenzioni del giornale ai temi normativi, fiscali e legali, tra gli altri.
È una spiegazione simile a quella che – per fare un secondo esempio sulla cosa che sto andando a dire – ci siamo dati al Post, avendone peraltro manifestazioni esplicite da parte dei lettori, per capire i numeri, le attenzioni, e le stime guadagnate dal Post stesso quest’anno (con ricadute persino in un aumento dei ricavi pubblicitari, in totale controtendenza): è evidente che il vecchio investimento del progetto del Post sull’accuratezza, l’affidabilità, la prudenza e la selezione nel dare informazioni sia stato infine apprezzato da una quota più cospicua di persone nell’anno in cui queste cose sono diventate drammaticamente importanti e non trascurabili: quando il gioco si è fatto duro, i lettori hanno cercato qualcuno di cui fidarsi più del solito, e il Post era lì da un pezzo.
Ieri i socialdemocratici hanno vinto le elezioni a Vienna, ed è andata molto male la destra fanatica e anti-immigrati: anche in questo caso ci sono variabili austriache, ma è un piccolo risultato che va in un senso opposto alla piega internazionale che ci sembrava inesorabile solo un anno o due fa. E in cui riconosciamo gli annaspamenti – per carità, da non sopravvalutare – della Lega e della destra italiane quest’anno, mettendoli ancora in relazione con la perdita di ruolo del populismo urlante e vuoto durante un periodo che ha mostrato priorità vere e che ha mostrato la necessità di fidarsi di quelli più credibili sulle priorità vere (non divaghiamo inutilmente, per favore: sono più credibili, comunque li si giudichi, e si mostrano più credibili). I risultati elettorali locali lo hanno dimostrato anche qui.
In un libro che scrissi dieci anni fa, il cui auspicio si è mostrato un fallimento su tutta la linea, avevo a un certo punto ricordato da quale storia passata di divisioni e da quale catastrofe recente fosse arrivata l’Italia in quel suo unico momento promettente dell’ultimo secolo che era stato il Dopoguerra, chiedendomi se fosse ripetibile.
Perché ho fatto questa sommaria digressione storica? Perché se questi argomenti sono veri e solidi, allora siamo spacciati, no? Non si cambia il passato, e se questo passato è così pesante nel definire quello che siamo, l’unica possibilità che c’è è liberarsene. La teoria prevederebbe quindi la necessità che si verificassero quel momento unificante, quella palingenesi, quel momento di costruzione condivisa che non ci sono mai stati in passato. Dolore, sofferenza, sacrifico, rinascita: una guerra. Non possiamo sognare una guerra (che dalla Bosnia in poi non è più impensabile). Ci deve essere un’altra strada.
Come vedete, quella che è arrivata non è una guerra (anche se certe necessità retoriche l’hanno chiamata così) ma una pandemia. Ne avremmo volentieri fatto a meno; e non ci ha “reso migliori” come alcuni avevano avventatamente ipotizzato a primavera (li vediamo ogni giorno, i mille modi in cui torniamo a essere i soliti fessi di sempre). Però – è presto per fare bilanci stabili – ha dato ad alcune persone un senso diverso delle priorità e delle necessità e persino delle paure, e di quanto contino alcune qualità di competenza, serietà e affidabilità in un tempo in cui molte persone sembravano aver rimosso per sempre questi bisogni a favore della ciarlataneria populista. Sarebbe stato meglio arrivarci da soli e senza “dolore, sofferenza, sacrificio”, ma appuntiamoci questi pensieri come qualcosa di promettente in questo anno pessimo.
p.s. aggiungo un altro pezzo dello stesso capitolo.
Più convincente mi pare Antonio Pascale nella sua coraggiosa battaglia per una rivalutazione del metodo scientifico per la ricostruzione di una cultura e di una discussione condivise e lontane dalla menzogna permanente in cui siamo immersi: ovvero in sostanza, per un ritorno in auge della verità. «Vasto programma», ma è un programma, che è quello che ci serve. Il paese ha bisogno di vittorie. Sembra una frase ironica. Invece dico sul serio, con sprezzo del ridicolo. Se non di vittorie, almeno di buon gioco. Se non di buon gioco, almeno di vedere che si sta lavorando bene, e poi le vittorie vengono, come dice il mister. L’amorpatrio lo si guadagna. Perché in sostanza è questo che chiedono la stima del proprio paese e la voglia di appendere bandiere. Rivincite, belle figure, primati, cose di cui andar fieri. «Siamo stati bravi».