L’insistenza della discussione sul “cavillo” da parte di alcuni giornali, nel racconto ai lettori della conclusione del processo contro Silvio Berlusconi, è una nuova dimostrazione di come l’ignoranza del diritto e della giustizia – con tutte le sue conseguenze – sia promossa e alimentata in gran parte dai mezzi di informazione: si somma alla demolizione della presunzione di innocenza, al racconto fuorviante sul senso della custodia cautelare o del carcere, alle confusioni sul 41bis, e alle molte cose “spiegate male” sul senso delle convenzioni e dei principi che regolano il funzionamento della “Giustizia”.
Sostenere, come fanno in diversi per ragione di propaganda demagogica (l’antiberlusconismo è stato ed è ancora una efficace macchina di marketing politico e commerciale, come anche l’anti-antiberlusconismo), che Berlusconi sia stato assolto “per un cavillo” e che questo non smentisca i fatti accertati è insieme fuorviante e tautologico. Non torno sulla sostanza di quel falsamente definito “cavillo” che è stata abbondantemente spiegata: mi interessa usare l’esempio per mostrare l’interpretazione ingannevole che in Italia si dà della legge e dei tribunali, ovvero quella per cui dovrebbero stabilire la verità e sancire i fatti accaduti. Non è così: i tribunali e le leggi stabiliscono – questa è la teoria – se siano state rispettate o violate delle regole che abbiamo concordato come comunità, per il bene della comunità. Non è il loro compito definire “cosa sia successo”, se non come strumento per arrivare alla conclusione detta: un mezzo, non un fine. La verità e i fatti sono l’obiettivo degli storici, o dei giornalisti, come si dice spesso; l’obiettivo dei processi è l’applicazione di regole. Il processo contro Berlusconi ha indagato cosa sia successo, sia nei fatti in esame che nella loro indagine, e ha concluso – in applicazione delle regole – per l’assoluzione. Non “per un cavillo” ma in base al proprio ruolo, al proprio mandato e alle norme stabilite. Stabilite con buone e lungimiranti ragioni, anche quelle sulla differenza tra indagati e testimoni: a meno che non vogliamo abolire una regola ogni volta che generi risultati che non ci soddisfano (la Costituzione ne uscirebbe a pezzi).
Noi invece abbiamo questa idea “sostanzialista” dei processi, nei quali dovrebbe prevalere la logica da bar sul rispetto delle regole, la soddisfazione di un presunto senso comune sul diritto. Equivoco alimentato dal fatto che chiamiamo col solenne e astratto nome di “Giustizia” – pure io, qui, inevitabilmente – quello che invece è un sistema di convenzioni variabili pensato per attenuare le conseguenze delle ingiustizie (diverso in ogni paese, per esempio, a dimostrazione del fatto che non ha niente di assoluto).
Ma le indignazioni o le delusioni (o gli entusiasmi) su molti mezzi di informazione continuano strumentalmente a raccontare che il risultato di un processo sia determinare la verità, e dare soddisfazione alle partigianerie politiche, o ai risentimenti personali, o alle frustrazioni per un sistema e un’attualità deprimenti del cui emendamento siamo invece responsabili tutti, attraverso l’uso della democrazia. La “supplenza della politica” da parte della magistratura non viene soltanto dai fallimenti della politica, ma dal nostro voler attribuire sventatamente alla magistratura quel ruolo, esautorando altri (noi stessi compresi): dal nostro pretendere che sia il processo “Ruby ter” a demolire o giustificare Silvio Berlusconi, i cui comportamenti e risultati piuttosto indiscutibili sono stati il risultato di una condizione culturale del suo paese che non può essere risolta dal processo “Ruby ter”. E che proseguirà a lungo, fino a che l’informazione – accessorio indispensabile del buon funzionamento delle democrazie – racconterà male i principi e il senso del diritto. Invece di spiegare cosa è un processo, cosa è il diritto, ed educare tutti quanti alla comprensione della “Giustizia”, e un passo alla volta contribuire ad avere un paese in cui un presidente del Consiglio non paghi ragazze per usarle come mercanzia, in un senso o nell’altro.