La fine del giornalismo routinario

Nei molti dibattiti sullo stato dell’informazione e del giornalismo ci sono tra le altre due cose che cerco spesso di spiegare. Una è che il “giornalista” a cui pensiamo quando diciamo delle cose generiche sul ruolo dei giornalisti, la figura del giornalista, il cambiamento del mestiere del giornalista, eccetera, è una macchietta superficiale che risale più alle figurine sui mestieri dei libri di scuola o ai film americani che alla realtà. I giornalisti fanno in realtà una ricchissima varietà di cose diverse tra loro e lontane dal cliché immaginato del “reporter”, e per un – che so – Carlo Bonini o Concita De Gregorio o Massimo Gramellini ci sono decine di redattori che compilano oroscopi, scrivono recensioni di dischi sconosciuti, impaginano ricette, mettono insieme giochi enigmistici, assemblano vestiti per le riviste di moda, dirigono giornalini a fumetti, per dire solo delle cose a cui si pensa meno.

Una seconda cosa è che la distinzione tra “giornali che producono notizie” e “aggregatori che usano i contenuti prodotti da altri” è un inganno schematico: non esistono produttori puri di notizie e giornalismo, e l’aggregazione di contenuti che arrivano da altrove rappresenta la gran parte della produzione di tutti i giornali tradizionali da molto tempo. Articoli stranieri, notizie d’agenzia, comunicati stampa, reazioni ad altri articoli, lettere dei lettori, segnalazioni promozionali, programmi tv, anticipazioni di libri, dati di borsa, previsioni del tempo: i giornali erano già aggregatori prima degli aggregatori (se vogliamo la differenza saliente è: non usare cose dei concorrenti, o se le usi non citare la fonte).

Oggi Claudio Giua ha segnalato su Twitter un bell’articolo Robert Picard – direttore del Reuters Institute – che sottolinea queste due cose e si spinge oltre, sostenendo che gran parte di questo lavoro nei giornali è diventato inutile e anacronistico, e che lo sta diventando anche gran parte dei giornalisti che lo fanno: che rischiano di diventare impiegati superflui a meno che non ritrovino una peculiarità concorrenziale del loro ruolo o che le loro testate non gliela impongano.

Most journalists spend the majority of their time reporting what a mayor said in a prepared statement, writing stories about how parents can save money for university tuition, covering the release of the latest versions of popular electronic devices, or finding out if a sports figure’s injury will affect performance in the next match.
Most cover news in a fairly formulaic way, reformatting information released by others: the agenda for the next town council meeting, the half dozen most interesting items from the daily police reports, what performances will take place this weekend, and the quarterly financial results of a local employer. These standard stories are merely aggregations of information supplied by others.

To survive, news organizations need to move away from information that is readily available elsewhere; they need to use journalists’ time to seek out the kinds of information less available and to spend time writing stories that put events into context, explain how and why they happened, and prepare the public for future developments.  These value-added journalism approaches are critical to the economic future of news organizations and journalists themselves.
Unfortunately, many journalists do not evidence the skills, critical analytical capacity, or inclination to carry out value-added journalism. News organizations have to start asking themselves whether it is because are hiring the wrong journalists or whether their company practices are inhibiting journalists’ abilities to do so.

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6 commenti su “La fine del giornalismo routinario

  1. Francesco

    Condivisibile.
    Però trascura il valore aggiunto del buon DJ, che i cambiamenti recenti stanno rendendo sempre più importante.

  2. Drockato

    Bello spunto con cose vere e molto sensate. Altre un po’ troppo forzate. Come il riferimento ai “produttori puri di notizie”.

    Non è che per scrivere di un omicidio o di una rapina devo mettermi a sparare alla gente o minacciare cassieri e correre a casa a scriverne, no?

    Banalizzazione che serve a dire che che il cronista si muove su un ambiente dove è lui stesso spettatore ma anche traduttore e mediatore. Il cronista si occupa di scrivere ciò che un sindaco o un commissario di polizia decide di riportare. Il vero inganno schematico, secondo me, è decretare la fine del giornalismo routinario: senza un referente il giornalista non potrebbe avere ciò che gli serve ad informare. E senza ciò lo stesso lettore non potrebbe informarsi. Potrebbe cercare di reperire informazioni altrove ma sarebbe quasi impossibile risalire a certe informazioni senza la mediazione del cronista.

    Questo è ciò che differenzia l’aggregatore di notizie dal quotidiano, cartaceo o online che sia. Poi se vogliamo parlare della figura del giornalista… Ma è chiaro che esistono diversi usi che il giornalista può fare della propria professione, dove sta il mistero? Ma uno sceglie di farlo, mica ne è costretto. Così come uno sceglie di fare il suo giro di telefonate alle sue fonti alla mattina (e scendere per strada appena ne ha l’occasione) qualcun altro sceglie di starsene seduto alla scrivania a copia-incollare, integrare, riscrivere e titolare pezzi che appaiono continuamente su altri siti di informazione.

    Poi ci si può anche sforzare di considerarsi cronisti, perchè, vai a sapere, magari fa figo. Ma la differenza tra redattori e cronisti sarebbe bene sempre ricordarla.

  3. wiz.loz

    Concordo con l’analisi, in particolare sul fatto che quasi tutta la stampa tradizionale, salvo forse alcune sezioni di cronaca locale, è in realtà composta da “aggregazione di notizie”, anche quando sono lanci delle agenzie.

    Il produttore di notizie esiste eccome: è il giornalista, o cronista, o chiamatelo come vi pare, in prima linea davanti ai fatti. Che sia cronaca locale, il transatlantico di Montecitorio oppure il fronte di una guerra, c’è sempre un giornalista che raccoglie i fatti, e “produce” la notizia. Perché la notizia non è il fatto in sé (l’omicidio, il furto, la guerra) bensì la cronaca del fatto.

    E non capisco la necessità di dare due valenze diverse alla qualità dei giornalisti che producono e che raccolgono/editano: sono ruoli di pari dignità e pari importanza, se ben svolti.

  4. odus

    ci sono decine di redattori che compilano oroscopi, scrivono recensioni di dischi sconosciuti, impaginano ricette, mettono insieme giochi enigmistici, assemblano vestiti per le riviste di moda, dirigono giornalini a fumetti, per dire solo delle cose a cui si pensa meno.
    E’ vero.
    Ci sono anche migliaia di baristi che fanno coktail (o come si scrive) o cappuccini uno diverso dall’altro e pizzette e panini e toast di gusti diversi.
    E con ciò?
    Finché cappuccini e toast avranno compratori, ci saranno i baristi a prepararli. Quando non ci saranno più compratori, quei baristi dovranno cambiare mestiere.
    Idem per i giornalisti che scrivono oroscopi o previsioni del tempo.
    Ma purtroppo ci sono altri giornalisti non routinari – o almeno lo pensano e lo fanno credere – che sono, agiscono e scrivono da militanti politici di partito camuffandosi con la definizione di giornalisti. E aspettano di venire eletti deputati per essere poi nominati ministri o, quantomeno, sottosegretari o per altri motivi (E. Scalfari) . O comunque eletti, magari nel Consiglio Europeo (M. Santoro, Lilli Gruber).
    Quanti ce ne sono stati (Gianni Letta in primis, ma non è l’unico), ce ne sono e ce ne saranno?
    Moltissimi politici di lungo corso si definiscono anche loro “giornalisti” e quando sono intervistati lo sono da “colleghi”.
    Insomma, tra politici, quarto potere e magistratura è assai difficile assegnare la palma del peggiore.

  5. Luca Martino

    Personalmente vedo il problema da un altro punto di vista.
    Il mercato ci sta rapidamente portando verso un “article on-demand” fatto da professionisti specializzati, poiché per le testate giornalistiche, ormai, assumere è una pratica desueta. Quindi la fine del “giornalismo routinario” sarà una conseguenza di questo processo di natura economica.

    Per questo con alcuni amici stiamo cercando di far nascere un portale (WeWra.it) che, oltre a raccogliere articoli “pagati equamente”, costituirà un database di giornalisti professionisti, copywriter freelance, esperti di settore, che le testate on e off-line potranno consultare per commissionare loro articoli , post, recensioni.
    (Se a qualcuno interessa partecipare si può già pre-iscrivere qui: http://www.wewra.it/p/partecipa.html)

    Quindi il cambiamento della professione è in atto e le testate giornalistiche diverranno editori la cui abilità sarà quella di “trovare giornalisti”, non di affidare pezzi ai propri (che saranno ridotti all’osso).

    Un’ultima riflessione. È vero che si arriverà a questo punto per ragioni economiche, ovvero la scarsità di risorse per l’editoria, ma ciò comporterà innumerevoli vantaggi: freschezza dei pezzi, competenza degli articolisti, equi compensi. E infine il più importante: libertà di opinione!
    Sarà molto difficile, infatti, ricattare un giornalista o influenzarne la propria autonoma linea editoriale.
    E vedremo, finalmente, la fine dei giornali di partito.

  6. Pingback: Lanci nel vuoto | Wittgenstein

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