Successi al Blue Note che non lo erano

L’ho già un po’ raccontato, ma ogni tanto devo confessarmi per esorcizzare. Di quello che scrive Saturnino sulla artificiosa “costruzione” di Giovanni Allevi, da parte dello stesso Allevi e del suo manager di allora, mi sento ingenuo complice da dieci anni esatti, quando scrissi un articolo su di lui per Vanity Fair, contribuendo alla sua iniziale promozione. E a rileggere quello che scrive Saturnino, e quello che scrissi io, mi feci abbindolare esattamente da quei trucchi da ufficio stampa di cui col tempo sono diventato più esperto, critico e diffidente. Poi è vero che – a parte Saturnino che sa di cosa parla, e ne parla con equilibrio – l’antiAllevismo è diventato un fenomeno noioso quanto l’Allevismo. Io però devo salvarmi l’anima.

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6 commenti su “Successi al Blue Note che non lo erano

  1. Raffaele Birlini

    Il fatto che sia materia da rivista modaiola non vuol dire che il tema non possa stimolare riflessioni. A quanto pare in Bellocountry ci si deve schierare pro o contro su tutto, artisti compresi. Fare pollice alto o verso come gli antichi romani. Decretare il destino degli individui mediante un rito di massa al circo massimo, dove gli influencers, gli opinion makers, sono gli addetti alle trombe e ai tromboni. In questo caso specifico la discriminante non è la militanza politica dell’artista ma la complicità con individui dediti allo spaccio di fama e successo. La tesi è che Allevi non sia un vero artista ma un prodotto mediatico costruito a tavolino, un frutto del marketing. Mentre i veri artisti – tipo chi? Jovanotti? Volo? – vengono fuori da accurata selezione democratica con abilitazione a certificare il merito. Il rispetto e la considerazione, il diritto di definirsi artisti, sono dunque esigibili solo a fronte di una specie di onorificenza ricevuta da chi? Dal pubblico no perché si sa che la gente non capisce niente di musica classica, di alta letteratura, di cinema d’autore, di politica. Sarebbe populismo, tv spazzatura, roba da antropologicamente inferiori. Lo stabilisce una commissione al ministero della cultura popolare? Oppure c’è un’aristocrazia nobiliare che si occupa di riconoscere il sangue blu degli aspiranti famosi? Un’èlite impersonata da chi? Dai giornalisti? Dai professori? Dal direttore artistico di Sanremo? Dal Freccero di turno? Chi ha l’autorità di non solo esprimere giudizi fondati sull’esercizio serio di un senso critico allenato e competente, ma anche di mettere timbri su certificazioni ufficiali? Qui si sta facendo esercizio di cerchiobottismo affermando che ci troviamo di fronte a due forme di democrazia popolare: quella che conferma i candidati del Partito e quella che “sbaglia a votare”. Lo stesso meccanismo di promozione che lancia sul mercato gli artisti viene da una parte ritenuto necessario per far conoscere alle masse gli artisti degni della nostra stima col fine di elevare il popolo e renderlo conforme alle aspettative del grande fratello e compagno segretario, dall’altra invece lo stesso meccanismo viene descritto come strumento nelle mani del nemico, il malvagio, Darth Vader, un Voldemort che truffa il popolo per gretti scopi commerciali legati al profitto. Due pesi e due misure. Non esistono più i mecenati che si assumono la responsabilità di usare il loro potere i loro soldi per esercitare il diritto di esprimere preferenze sugli artisti da finanziare e sostenere, e dunque con il potere di orientare la cultura popolare. Adesso questo potere viene esercitato mediante il marketing, che è propaganda, per cui bisogna capire che è ai comandi del potere mediatico: il popolo o lo Stato? Oppure una mafia di impresari poco raccomandabili che vanno a caccia di teste ambiziose per macinare fatturato? Una dicotomia vecchia come il mondo: se è il popolo si rischia la democrazia diretta e non va bene perché la maggioranza del popolo dev’essere qualificata, dev’essere competente, deve possedere le informazioni e gli strumenti intellettuali, altrimenti “sbaglia a votare”. Se a comandare è lo Stato invece si rischia la dittatura totalitaria, anche se chi va al governo ha ottenuto mandato popolare. L’ipotesi di una mafia capitalista che rovina il delicato ambiente della cultura e dell’arte, lancia prodotti adulterati nel mercato dell’intrattenimento per compromettere il delicato apparato critico nelle masse di consumatori paganti, lo relego nel campo delle ideologie massimaliste e delle paranoie complottiste. In una prospettiva dove risulta impossibile stabilire oggettivamente chi è degno di successo popolare e chi no, trovo desolante il preoccuparsi di essere considerati invidiosi mentre si lanciano escrementi su Allevi.

  2. Spock

    @Raffaele Birlini: ammazza che pippone! Scusa ma non ce l’ho fatta. Ho memorizzato solo “escrementi su Allevi”.

  3. andrea ferrari

    ma non sarà più semplice dire che i più furbi e determinati, se hanno anche possibilità e capacita pregresse, le sfruttano al meglio per arrivare in alto?
    E che poi è anche più bello, così quelli bravi davvero ci sembra di averli scoperti noi…quando li troviamo!

  4. Carmen

    Facciamo un riassunto. Tu, Saturnino e Jovanotti, che ve ne intendete di musica, avete contribuito, su piani molto diversi, al successo di Allevi, perché vi era sembrato degno di attenzione. Quando però questo successo ha superato ampiamente le previsioni iniziali, vi siete sentiti in dovere di spiegare al mondo intero che non è poi un grande artista, como il suo successo potrebbe farvi credere, e che non compone grande musica, ma musica risibile.
    Perché fate questo? Perché? Sono sicura che non è per invidia, tu fai un altro mestiere e Saturnino non ha proprio nulla da invidiare ad Allevi, ma perché? Solo perché una volta avete preso un granchio?

  5. Pingback: Fan e denigratori di Allevi - Il blog di Paolo Lucciola

  6. Steve Romano

    Non è di sicuro una questione di invidia e in realtà nemmeno del valore della musica di Giovanni Allevi.

    La colpa è tutta di Allevi, che compone canzonette molto elementari che molti trovano piacevoli, e che invece di accontentarsi del suo successo si propone nientemeno che come “l’innovatore della musica contemporanea”, come colui che “ha portato i giovani alla musica classica” (la sua sarebbe musica classica perché suona il piano da solo e perché “è tutta scritta”) e anche come “il nuovo Brahms”.

    Tutto qui. Nell’articolo di Sofri non c’era niente di tutto questo, diceva solo che le musiche di Allevi gli sembravano graziose; a me no, ma è solo questione di gusti. Ma quando costui si propone, tutto da solo, come un personaggio fondamentale nella storia della musica occidentale, è chiaro che venga voglia di tirarlo giù dalla sua cassetta di frutta a colpi di pomodori marci, e forse è anche giusto.

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