Una città per cambiare

Ho controllato, non scrivo del Partito Democratico da un anno e mezzo (l’ultima volta già con un certo distacco, peraltro): vivo bene, in effetti, una volta accettata la convivenza con una stabile sensazione di disincanto. Mi sento come immagino si sentano certi anziani vedovi, che si fanno una ragione della solitudine e solo certe sere, a casa, la percepiscono più forte. Guardano un film, faticano un po’ ad addormentarsi, ma la mattina dopo hanno altre distrazioni e impicci a cui pensare.

Se ci metto un momento la testa di nuovo, è perché – proseguendo la metafora – mi sento in queste settimane come se tutti mi chiedessero “e come va, da solo?”: e i pensieri che con fatica cerchi di accantonare ti vengono imposti dal mondo intorno. Tutto – per chi come me è ancora costretto a leggere i giornali e ricevere le notifiche online – dice che si avvicina una catastrofe elettorale per i desideri progressisti di chi ne ha (una piccola catastrofe: i tempi insegnino il senso della misura) e non se ne vede il modo di evitarla. Si fa il giro di tutto, guardandosi intorno, e si finisce sul PD: e niente, e si ricomincia vanamente il giro.

Enrico Letta ha fatto alcune buone cose e quasi nessuna cattiva, da quando è capo del PD. La principale buona è aver saputo interpretare con più dignità la strategia dell’opossum avviata con maggiore ignavia dalla segreteria precedente: ovvero cercare di stare molto fermi mentre gli altri si fanno male ogni volta che si muovono, ma ricordare ogni tanto almeno a parole le proprie ambizioni. Non è proprio il mio modello di grandi speranze per l’Italia, ma di questi tempi funzionicchia (era da tempo che il PD non arrestava il calo di consensi) e se si è disillusi sulle grandi ambizioni – come sembra che siano un po’ tutti, Letta compreso – può essere utile la riduzione del danno. Avere un leader dignitoso (che persino quando si adatta ad alleati davvero imbarazzanti e che hanno già sfottuto e tradito diversi segretari del PD, evita almeno di chiamarli “punto di riferimento per i progressisti”) e non divisivo, per un grande partito serio è un bicchiere un quarto pieno. Diventa mezzo pieno se ci si aggiunge l’integrità e coerenza della posizione tenuta in difesa dell’Ucraina, che non era per niente scontata – si pensi a cosa sarebbe potuta essere con la gestione precedente – e che ha orientato le scelte del governo su questo. Nessun altro partito maggiore è stato senza peccato, sulle indulgenze verso Putin.

Il problema – oltre a problemi più grossi che non riguardano solo il PD, che è solo il pezzetto della scena di cui stiamo parlando ora – è che Letta non ha dato al suo partito la credibilità necessaria a un gioco che si fa duro: la riduzione del danno non sarà sufficiente. Il messaggio che è circolato, nei primi tempi della sua segreteria, è stato quello che avrebbe dato priorità a un lavoro di ricostruzione di un’unità e di una credibilità del partito, anche a scapito dell’attività politica più visibile – demandata al governo – e di una più attiva ricerca di consenso. Quel lavoro – se è avvenuto – ha manifestato qualche risultato nei successi (moderati, eh: non esageriamo) delle elezioni amministrative, ma ha ancora un enorme simbolo di fallimento in Roma: dove convivono due problemi che oggi sono ancora l’immagine della disillusione nei confronti del PD da parte di molti elettori. Il primo è un’amministrazione su cui è giusto avere indulgenze (provateci voi) ma che ha sempre saputo che non avrebbe potuto permettersi di dare un’idea men che rivoluzionaria: e invece sta dando un’idea inerme e impotente, avendo invece sia l’obbligo che l’enorme opportunità di mostrare di cosa possa essere capace il PD di Letta rispetto agli altri partiti e rispetto agli altri PD. Se uno guarda Roma – ed è difficile non guardarla – quello che vede è quello che ha sempre visto (ed è insignificante qualunque eventuale legittima scusa accampata o qualunque fondata obiezione su “quello che si sta facendo e cercando di fare”: conta quello che si vede, per scongiurare le catastrofi elettorali): con la sola esemplare eccezione – esemplare della giusta direzione possibile – della posizione presa sulla necessità del termovalorizzatore e però ancora troppo insicura e non abbastanza difesa dal PD, appunto. L’altro problema che emana da Roma e che oscura qualunque altra apprezzabile quota di buona ed efficace presenza “sul territorio” è il disdicevole blocco di potere trafficone e anacronistico a cui appartiene una buona parte del PD romano, che – con meno spacconeria di un tempo sul piano nazionale – continua a zavorrare cambiamenti e a coltivare interessi diversi da quelli comuni. Queste due cose si vedono, e sono il PD, Roma è il PD oggi e il PD può essere Roma: mentre spariscono sullo sfondo le sterili predicazioni sui diritti, lo ius scholae, la legge Zan, la cannabis, eccetera.

Ecco, io ora torno ai miei impicci e alle mie distrazioni (alcune delle quali molto confortanti, nel loro piccolo): ma se mi immaginassi ancora elettore del PD e per solidarietà e pragmatismo digerissi pure l’alleanza imbarazzante e infingarda, mi chiederei cosa posso però aspettarmi da un partito che ha l’opportunità più ricca e spettacolare di mostrarsi credibile e promettente, e la ignora, o se ne fa sconfiggere.

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