«Abbiamo bisogno di strumenti principalmente culturali», ha scritto oggi sulla Stampa la giudice Paola Di Nicola Travaglini, riferendosi ai magistrati e a proposito della distorta idea della legge trasmessa dal pubblico ministero di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per un uomo accusato di violenze – confermate dal pm stesso – nei confronti della moglie.
Bisogna «investire in istruzione. Ma non l’investimento privato, individuale, bensì quello pubblico, collettivo»: dice poi il commento della sociologa Marianna Filandri proprio nella stessa pagina, dedicato però ai fallimenti dell’educazione scolastica.
È così impressionante l’ovvietà delle soluzioni alla gran parte dei problemi contemporanei, e la sterilità della loro ripetizione, del loro affollamento, che ci si sente noiosi a parlarne ancora. Lo farò brevemente, quella volta ogni paio d’anni o forse più. Aggiungo ancora una citazione per confermare ulteriormente quanto sia ovvio e condiviso il percorso, quanto valga per ogni cosa, e quanto sia quindi evidentemente impraticabile, se no già l’avremmo praticato. Dalla newsletter di Michele Serra di questa settimana:
A proposito di baby gang e criminalità giovanile ho condiviso al cento per cento quello che ha scritto Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile e psicoanalista illustre, su Repubblica. Mia estrema sintesi del suo intervento: reprimere lascia il tempo che trova, non incide per davvero, è un intervento superficiale. Perché per andare alla radice del problema sarebbe necessario un lungo lavoro di risanamento sociale e di cura individuale. Servono insegnanti, assistenti sociali, psicologi, carceri che rieduchino e non abbrutiscano. Servono dignità e decoro nei posti dove si abita e dove crescono i futuri adulti.
Sappiamo tutti che nessuno dei grandi problemi che possiamo con realismo desolato chiamare a questo punto “declino dell’Italia” può essere affrontato mettendo delle pezze – assai poco resistenti, peraltro – sulle tante falle con cui questo declino si mostra. Né privilegiando la repressione sull’educazione. Gli esempi qui sopra sono evidenti: qualunque grossa questione è culturale, e in origine è persino una questione di relazione con la convivenza e il senso di comunità di questo paese, relazione che non ha mai raggiunto una completezza soddisfacente malgrado i notevoli progressi dell’unità d’Italia, della liberazione dal fascismo, e della Costituzione democratica. Nella cosa più importante, il senso di comunità, il rispetto e la complicità con le altre persone, siamo sempre rimasti indietro. Ma quello che è cambiato, nell’ultimo decennio in particolare, è l’inversione di un percorso di faticoso e difficile progresso in questo senso, o almeno la percezione che questo percorso esistesse e che avesse delle prospettive, e una partecipazione motivante. E la sua trasformazione in un arretramento, persino: passi indietro invece che avanti.
Le ragioni di tutto questo sono diverse, e alcune non riguardano nemmeno solo l’Italia. Ma sono tutte infiltrate da una tendenza indiscutibile e catastrofica: il disinvestimento sull’educazione, dove con educazione si intende ogni forma di aumento della conoscenza e di crescita culturale, dalla scuola, all’informazione adulta, allo scambio di conoscenze, alla discussione pubblica basata sul rispetto civile e sull’ambizione di un progresso comune, alla fiducia nel metodo scientifico. Questi strumenti sono stati progressivamente delegittimati dal saldarsi di due gravi e solidali responsabilità: da una parte quella di una classe dirigente (e intendo chiunque si impadronisca di occasioni di comunicazione più potenti, anche dall’oggi al domani) che ha predicato e praticato per ragioni demagogiche e di costruzione di potere personale una propaganda di senso contrario, demolendo la conoscenza come valore, demolendo la cultura come attributo e strumento, demolendo la convivenza e il rispetto come priorità e obiettivi cristiani e civili, demolendo valori illuministi, democratici e progressisti come principi condivisi, demolendo la crescita morale e personale come strumento di gratificazione. E dall’altra la responsabilità di tutti noi che abbiamo ceduto a questi messaggi, nel contesto di un mondo nuovo che ha invece motivato – attraverso strumenti e scenari altrettanto nuovi – alla promozione vanitosa di sé, alla competizione col prossimo, alla frustrazione e al vittimismo, al risentimento e alla divisione. Non al “narcisismo”, parola abusata e buona per tutto: all’egoismo, proprio, e al suo sdoganamento.
In sintesi, stavamo faticosamente lavorando – come paese e come civiltà – a estendere il più possibile un proficuo senso della vita e del bene comune presso tutti noi abitanti di questo paese e di questa civiltà, e le cose hanno preso una piega opposta, da cui discende il pessimo stato di gran parte di quello che vediamo intorno (pur vedendo, nel frattempo e altrettanto vicine, un’enorme quantità di persone brave ed eccezionali, di potenziale, di meraviglie della convivenza civile, di bellezza e di amore, persino).
Inciso: posso sbagliare, e il ciclo che ho appena esposto si ripete invece in relazione alle età e alle speranze di ognuno, di generazione in generazione. Questo era Ferruccio Parri nel 1972, sulla sua maggiore delusione.
«Mah, il popolo italiano, ecco. È la cosa che mi pesa di più. Man mano che mi sono fatto una conoscenza più profonda del popolo italiano, ho toccato i suoi aspetti di scarsa educazione civile e politica. Mi riferisco alla parte prevalente del Paese, non a tutto il Paese. Questo rafforzarsi costante del mio pessimismo, questa constatazione progressiva della non rispondenza della maggior parte del popolo è una delusione forte per uno che ha sempre ritenuto e ritiene di dover fare qualcosa per la vita pubblica».
Però a me sembra che un cambiamento ci sia stato, da un’idea politica che aveva così caro il popolo da volerlo togliere dall’ignoranza a una che quell’ignoranza la difende e celebra. Fine dell’inciso.
Tutto questo si inverte soltanto con gli strumenti esposti dalle citazioni iniziali, e da altre migliaia di articoli di commento e di editoriali che abbiamo letto o che leggeremo. Ma la loro sfinente ripetizione non fa che mostrare quanto siamo lontani dal muoverci in quella direzione. Chi ha il potere di farlo ha tutt’altre intenzioni, e non è solo o sempre una questione di facili demarcazioni politiche. Chi predica queste stesse buone cose in ambiti politici e istituzionali non è stato capace di convincerne abbastanza elettori, e pure questa è una responsabilità grave.
Quindi, per concludere: sì, serve un lavoro culturale, un investimento nell’educazione più che nella repressione, nell’insegnamento dell’etica quotidiana, nell’educazione-delle-masse (lo dico con sprezzo della cattiva fama dell’espressione: le masse siamo tutti) e di costruzione di un senso del bene comune, della collaborazione, e addirittura del patriottismo (un patriottismo vero e contemporaneo, di comunità, non quello divisivo e ringhioso predicato a destra). Nient’altro ci salverà, come paese. Ma a chi lo stiamo ripetendo?