Tutte le altre persone

Qualche giorno fa il corrispondente da Israele dell’Economist si è domandato su Haaretz – il maggiore quotidiano progressista israeliano, il più autorevole internazionalmente – come sia successo che l’indulgenza degli alleati occidentali nei confronti della guerra di reazione avviata da Israele un anno fa sia durata così tanto. Un anno intero. Non se lo aspettava nemmeno Israele, ha scritto. Rispondendosi e rispondendo che nel presente contesto internazionale quei paesi hanno bisogno di conservare le relazioni e l’alleanza con la potenza militare e tecnologica di Israele.
Risposta valida per i governi e le leadership, ma la domanda ha bisogno di avere una risposta anche per le persone che vivono nei nostri paesi e che in grandi quote dopo un anno continuano ad accettare le decine di migliaia di persone innocenti uccise da Israele.

Non ho più scritto niente su Israele e Gaza in quest’anno, a parte un paio di spazientimenti che non sono riuscito a trattenere. Di solito scrivo cose che penso possano essere interessanti per qualcuno o suggerire pensieri e idee a cui qualcuno magari non aveva pensato. Ma su questo invece sembra che tutti sappiano già tutto, e che la morte quotidiana di centinaia di persone serva solo ad affermare la propria tifoseria. Altre volte scrivo con l’illusione implicita che “serva”: ma su questo avevo già scritto un anno fa che “non ci sono prospettive realistiche di “soluzione” di nessun tipo, nel 2023”.
“In un panorama corrotto a tal punto è più che legittimo, credo, chiamarsi fuori dalla discussione”, dice Paolo Giordano in un ottimo articolo sul Corriere della Sera di stamattina, scrivendo meglio un po’ delle cose che avevo accatastato in questo post ieri sera, e che ormai tengo qui.

Le equivalenze sono una stupidaggine: ogni storia ha contesti e variabili diverse, Israele non è l’Ucraina, la Palestina e Israele non sono due squadre in campo, l’Olocausto non è ragionevolmente paragonabile con il presente massacro di persone palestinesi e libanesi, misurare tutto in numeri e confronti – come se diecimila morti fossero “una cosa” più grave di novemila morti – è da giudici di linea, non da umani sensibili; avere bisogno di categorie (terrorismo, genocidio, eccetera) in cui ammassare le persone uccise per vincere delle partite, come se contassero più delle vite e dei futuri, dice la superficialità di gran parte del dibattito. La maggior parte dei più bellicosi difensori di Israele o della Palestina sta parlando di sé, sono persone che stanno difendendo sé stesse e il proprio bisogno di esistere e partecipare. Hanno bisogno di vincere, non di proteggere Israele o la Palestina, le persone sono numeri, punteggi, bandiere. “I deboli”, “la democrazia”, dicono. Dove “deboli” sarebbero pure quelli che massacrano persone israeliane inermi e pacifiche, e “democrazia” sarebbe uno stato che tiene una parte della popolazione senza diritti, discriminata e perseguitata.
“Amo israeliani e palestinesi ma i loro amici mi fanno uscire di senno, dovrebbero rafforzare le forze moderate, non aizzare il fuoco”, spiega Thomas Friedman sempre sul Corriere, stamattina, in un’intervista opportunamente titolata sul fatto che “l’alternativa ai Due Stati è nessuno stato e tutti morti”. Friedman è sempre stato più ottimista, e gliene sono in debito.

Le equivalenze sono una stupidaggine, ma non si ricorda – da parte chi la mostra, moltissime persone – tanta indifferenza nei confronti di tanti morti innocenti, negli ultimi decenni. Indifferenza consapevole, intendo: che altre volte l’abbiamo nascosta dietro l’ignoranza, guerre sconosciute, non raccontate, trascurate, che non ci riguardavano. Questa la osserviamo intensamente, ogni giorno, ne sappiamo tutto, e la storia ogni giorno è: hanno ammazzato altre cento persone. Perché le loro vite dovrebbero valere niente, per chi sostiene invece di avere care altre vite, alcune decine di vite? Valere meno, si può capire, ognuno ha cari i suoi simili: ma valere niente?

Rispetto alla salvezza degli ostaggi l’operazione militare israeliana non è servita praticamente a niente. Anzi. Sono più le persone sequestrate che sono state uccise (alcune, per stessa dichiarazione di Israele, proprio per l’avvicinarsi dei suoi soldati) che quelle che sono state salvate; e nessuno si azzardi a immaginarla un’assoluzione per gli assassini che le hanno uccise. L’operazione militare israeliana finora è servita ad ammazzare decine di migliaia di persone, a mettere a rischio il futuro di un pezzo di mondo, compreso Israele stesso, a complicare le prospettive di salvezza degli ostaggi. E certo, ad ammazzare qualche decina di capi assassini degli assassini, come Israele fa da decenni: istantanee rassicurazioni, sensazioni di controllo, ma guarda invece a cosa è servito.

E poi la reazione di Israele è servita a distruggere Israele. Processo cominciato già da prima del 7 ottobre, come racconta il bell’articolo di Anna Momigliano, ma ora reso irreversibile. Israele non è più Israele, né per sé né per il resto del mondo. Quello che ha fatto è non inaccettabile – parola insignificante, che presuppone che a Israele gliene freghi qualcosa di quello che accettiamo -, è imperdonabile. Ne aveva fatte, di pessime, nella sua storia, come molti stati: come il nostro, che nessuno ha mai chiesto di cancellare malgrado abbia prodotto un regime e delle persecuzioni così ignobili che hanno persino dato il nome stesso a un tipo di regimi e persecuzioni. Gli Stati Uniti sono nati sullo schiavismo e sulle stragi di nativi e nessuno pensa oggi che vadano cancellati per restituire loro la terra. Israele ne aveva fatte, di pessime, dentro una storia ricca anche di nobili intenzioni e nobili persone, una storia socialista e progressista in una sua gran parte, autocritica in una sua gran quota, prodotta da un’intenzione di salvezza dopo duemila anni di annientamento e capace di ospitare persone benintenzionate e desiderose di convivenza. Ma sono tutte cose del passato, malgrado le nobili e brave persone che ancora lo abitano: Israele è diventato imperdonabile, le grandezze della sua storia sono Storia. Imperdonabile per quello che ha fatto agli altri, imperdonabile per quello che ha fatto a se stesso, imperdonabile – in fondo alla lista – per quello che ha fatto a noialtri. Perché si redima – si redima il suo governo e le gran parti del suo popolo che lo hanno legittimato e sostenuto e lo sostengono – serviranno decenni, se mai sceglierà di farlo. Mi pare impensabile, al momento.

È per questo che si scrive poco, disperati e col senso di colpa, conclude ancora Paolo Giordano: è il silenzio condiviso di “tutte le altre persone”.

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